non avrai altro punto luce all’infuori di me

e avevamo anche detto no, il sabato no. e la domenica non se ne parla.
ma poi guarda che il martedì io lavoro, il venerdì c’è il corso, il giovedì come facciamo che dopo bisogna essere qui alle cinque, mercoledì no che ho già prenotato la tortura depilatoria, anche se c’andiamo la mattina ho scuola all’una e mezza, bisogna portare elettra dal veterinario, il frigo è alla desertificazione, il pomeriggio non si tocca sennò quando cavolo scrivo, …
così eccoci. in macchina. la domenica mattina. per l’Ikea.
c’era anche venuta quella delle partenze intelligenti: si arriva a mezzogiorno, mentre gli altri mangiano, si scofana via per i reparti rapidi rapidi, e alle quattro siamo a casa.
evidentemente, siamo in tanti ad essere intelligenti alla stessa maniera: a mezzogiorno il park è già traboccante, l’omino con i segnali ci manda, letteralmente e metaforicamente, in tanta malora (ma per fortuna all’ombra).
saliamo: il restaurant è colmo (eh, eh).
i reparti pure. arg.
uno non sa cos’è l’Ikea di domenica finché non fa parte dell’Ikea di domenica. puoi anche esserti fatto un giro preventivo, e avere annotato le cose che ti servono, e avere imparato a memoria il catalogo (anche quello on-line), e dotarti di paraocchi da cavallo: giuri che comprerai quello e solo quello che ti serve. ma non c’è pezza. che siano le luci, o i soprammobili krudseng, o l’ineffabile solletico al nostro senso nascosto dell’inutile. l’Ikea ti tiene in pugno. hai messo mezzo mignolo oltre la soglia, e sei già diventato anche tu un componibile della sua cosmologia. non sogni altro che salmone e biscottini alle spezie. vuoi vedere tutto, toccare tutto. ti siedi sulla poltrona angolare cuadratevern, ti spaparazzi sul divano mollirstuf, ti alzi dal design di ficosveg, ballonzoli sul dondolo uaustag. e davanti al letto ronfenbed non ce la fai: TI CI DEVI buttare a pesce. ne va della tua felicità ultraterrena.
così giri, giri, e il carrello si riempie, si riempie.
sai che la tua camera è (sarà) grande come una camera per comuni mortali, ma tu ci sogni un guardaroba di due chilometri superaccessoriato, scocca in acciaio, luci strobo, novemila cassetti. e, quel che è bello, riesci anche a convincerti, in quei pochi metri di reparto, che dai, non siamo pessimisti per favore: ci entrerà benissimo. poi hai il crollo: l’agognato mobile-bagno burpwit non ha la combinazione giusta. al reparto tende ti hanno appena fumato sotto il naso l’ultimo rotolo della misura che ti serviva. lo scaffale dell’appendi-spezie ti guarda vuoto come un buco nero.
il down è duro. ti specchi negli occhi del bassotto che chiede pietà caricato sul carrello di un vicino. è da due giorni che il suo padrone lo scarrozza tra i reparti. a proposito: decine, centinaia di quadrupedi stramazzati sulle rispettive copertine ti passano a fianco dappertutto, issati sulle quattroruote. non hanno neanche la forza di dire arf.
quando dall’anta di un armadio esce di colpo una massaia con gambaletto a vista, urlando : carooooooo, abbiamo trovato amundsen!! capisci che è arrivata l’ora di levare le tende.
naturalmente sono le sette. bilancio: due genitori accasciati in macchina. stremati (ma felici per il loro set di scatole). due terzi dei punti-luce conquistati. uno scontrino lungo come le trecce di raperonzolo.
il mistero finale è: ma quante cene dovrai cucinare per riuscire a smaltire quei quattromilacinquecento tovaglioli di carta colorata e fantasia, di cui non potevi assolutamente fare a meno?